Esiste davvero la plastica biodegradabile? Una scomoda verità
La plastica biodegradabile? Si, esiste.
Solo che…come sempre, quando navighiamo alla ricerca di informazioni, dobbiamo prestare attenzione.
Esistono tante verità.
Alcune più o meno oggettive, altre molto utili al senso dell’orientamento.
Queste ultime diventano tasselli fondamentali nel puzzle della conoscenza. Punti cardinali incontrovertibili.
Dipende tutto dalla meta. Nel caso della plastica biodegradabile, d’istinto, sappiamo che l’obiettivo da raggiungere è: rendere lieve la nostra inevitabile impronta ecologica.
È per questo che siamo riusciti a produrre plastica -biodegradabile e compostabile-!
Sembrava dovesse rimanere solo il sogno più spinto degli ambientalisti.
Invece è una realtà esistente.
E non si tratta semplicemente di soddisfare le ambizioni di qualche fanatico fan della green economy. Ma della vita di tutti noi.
In Italia, la trasformazione da rifiuto organico a plastica avviene (per esempio) in un mini-impianto in provincia di Treviso.
Grazie all’uso di speciali batteri che digeriscono i rifiuti.
Presto sarebbe sorto nella zona di Rovereto un altro impianto, di dimensioni industriali.
Riunendo in un un’area ristretta come quella del Trentino: università, industria d’avanguardia e pubbliche amministrazioni d’eccellenza.
(Oltre a una raccolta differenziata seconda a nessuno in Europa.)
Infatti, la questione della plastica biodegradabile è direttamente connessa alla situazione dei rifiuti. E la Provincia Autonoma di Trento è molto chiara nelle sue intenzioni:
“la qualità della vita è figlia della qualità del pensiero”
Ecco, dunque, che arriva già nel 2019 l’appello dei responsabili di Bioenergia Trentino e della Eco Center di Bolzano. Le due società che lavorano i rifiuti raccolti affermano:
“I nuovi materiali come sacchetti, piatti o bicchieri sono biodegradabili ma non compostabili. Stanno rendendo impura la nostra raccolta”.
Questa è soltanto -una- delle scomode verità che riguardano la plastica biodegradabile (e l’Italia!).
Cerchiamo di capire meglio cosa succede.
Ci proviamo prendendo come riferimento le informazioni offerte dalla pluripremiata giornalista italiana Milena Gabanelli.
Plastica biodegradabile: dove si butta?
In sintesi, mentre un materiale compostabile è anche biodegradabile, un materiale “bio” (come la plastica biodegradabile) può non essere compostabile.
Va eliminato ogni dubbio.
Al di là di come “vengono chiamati” certi materiali o prodotti, bisogna fare molta attenzione allo smaltimento. Differenziare nel modo giusto è un’azione fondamentale.
Prendiamo per esempio i sacchetti.
Quelli (semplicemente) biodegradabili, devono essere smaltiti insieme alla plastica. E non possono essere utilizzati per raccogliere i nostri scarti dell’umido.
Nel caso, invece, di sacchetti biodegradabili e compostabili, questi possono essere conferiti nell’umido.
Certamente! Il ciclo di produzione di materiali biodegradabili genera meno gas a effetto serra. Poi, presenta un’impronta di carbonio più bassa rispetto, ad esempio, alla plastica tradizionale.
Ma questo, a quanto pare, non basta ad affrontare i problemi legati all’utilizzo della plastica.
Uno dei quali riguarda il fatto che non esiste nessuna norma europea che precisi l’etichettatura ambientale di una bioplastica. Salvo l’eccezione di quella “biodegradabile e compostabile”.
Che sarebbe, appunto, quella che può essere gettata insieme ai rifiuti alimentari.
Quali sono i sacchetti/shopper nei quali riponiamo frutta e verdura acquistata, che potranno essere riutilizzati come contenitori per i rifiuti organici?
Non bisogna lasciarsi ingannare dalla scritta BIODEGRADABILE.
L’unica certezza è che occorre verificare la presenza della sigla EN 13432. Corrispondente allo standard normativo. Questa certifica la biodegradabilità unita alla compostabilità.
Plastica biodegradabile: inquina se …
Bisogna fare chiarezza in merito ai termini che sentiamo/utilizziamo. In modo che, per esempio, al momento dell’acquisto di plastica biodegradabile, possiamo accedere a scelte consapevoli.
Sempre con il nostro focus ben presente. Ridurre l’impatto ambientale!
Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e Iupac (Unione internazionale di chimica pura e applicata) hanno chiarito la situazione da anni:
“si possono definire bioplastiche quelle ottenute con materiali biodegradabili e compostabili.”
La biodegradabilità di un prodotto non dipende tanto dalla materia prima di cui è costituito, che può anche essere di origine fossile. Quanto dalla sua struttura chimica.
E l’impatto ambientale è strettamente legato al tempo che impiega per biodegradarsi.
Esistono due tipi di bioplastiche:
- quelle che derivano da un miscuglio formata da acido lattico, amido (di mais, frumento, patate, tapioca, riso) e gli scarti della lavorazione del petrolio.
- quelle che derivano da microrganismi alimentati con zuccheri o lipidi.
Gli oggetti monouso più comuni prodotti con questo tipo di materiale sono: sacchetti per la spesa, per l’umido, teli agricoli. Sacchetti ultraleggeri, bicchieri, film per imballaggi, per alimenti, posate…
La confusione nasce anche a causa dell’Associazione Europea per le bioplastiche. Che parte da un altro presupposto:
“si definisce bioplastica ciò che è biodegradabile, ma anche ciò che deriva da fonte rinnovabile”.
Dunque, sono entrati nel calderone: il polietilene e il Pet. Che derivano in tutto o in parte dal bioetanolo, prodotto per fermentazione di alcune specie vegetali.
Purtroppo, però, queste sono plastiche che in pratica non si degradano! E in più, hanno applicazioni infinite: dalle bottiglie per l’acqua minerale, ai contenitori per alimenti, alle posate…
Rappresentano il 24% della produzione non tradizionale, ma:
“definirle bio è ingannevole”
Lo scrive il Cnr nella sua relazione al Senato.
Perché? È evidente che induce i consumatori a pensare che si degradino e quindi ad essere meno attenti…
Come funziona la plastica biodegradabile? Enigma da svelare
In base alle normative, la plastica biodegradabile è un materiale che può essere degradato da batteri o funghi.
Questo accade quando si trova in un ambiente acquatico, gassoso o costituito da biomassa.
Di solito per la degradazione servono: un determinato lasso di tempo, particolari condizioni di temperatura e la presenza di ossigeno o microorganismi capaci di digerirla.
Anche i polimeri ottenuti da combustibili fossili possono essere biodegradabili (come nel caso del PBS), ma i più diffusi non lo sono:
- polipropilene;
- polietilene;
- cloruro di polivinile;
- poletilentereftalato;
- polistirene.
Per quanto riguarda il termine bioplastica, invece, questo dovrebbe essere utilizzato per prodotti ricavati da biomassa. Quindi materiale di origine biologica, come amido di mais, di grano, di tapioca, di patate) senza la presenza di alcun componente di origine fossile (carbone o petrolio).
Alcuni tipi di bioplastica sono biodegradabili (ad esempio l’acido polilattico o PLA), altri non lo sono (Bio-PET per bottiglie di acqua e altre bevande).
Inoltre, secondo la definizione data dalla European Bioplastics, la bioplastica può essere:
- biodegradabile;
- a base biologica (bio-based);
….possedere entrambe le caratteristiche.
Ovvero può derivare:
- parzialmente o interamente da biomassa e non essere biodegradabile (per esempio: bio-PE, bio-PP, bio-PET);
- interamente da materie prime non rinnovabili ed essere biodegradabile (per esempio: PBAT, PCL, PBS);
- parzialmente o interamente da biomassa ed essere biodegradabile (per esempio: PLA, PHA, PHB, plastiche a base di amido).
Infine, secondo la definizione data da Assobioplastiche, per bioplastiche dovremmo intendere: quei materiali e quei manufatti che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili. Siano essi da fonti rinnovabili che di origine fossile.
Assobioplastiche, ha suggerito di non includere nelle bioplastiche quelle derivanti da biomassa. Se non sono biodegradabili e compostabili!
Indicandole piuttosto con il nome “plastiche vegetali”! Ma non finisce qui…
- Leggi anche: Azienda sostenibile: cosa significa e come si fa?
Plastica biodegradabile: vietata
Maturano nel “clima” odierno di allarme ambientale alcune decisioni inerenti alla plastica biodegradabile. Alla bioplastica…alla plastica!
Grazie anche alle politiche per la transizione ecologica e la “rivisitazione” della nostra economia: da lineare a circolare.
Arriva la direttiva europea 904 del 2019. A partire dal 3 luglio 2021 posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati, agitatori per bevande, aste per i palloncini e contenitori per alimenti non potranno più essere realizzati in plastica. Anche nel caso delle biodegradabili.
Lo scopo è soprattutto quello di ridurre (e quindi prevenire) l’impatto della plastica nei mari e sulle spiagge europee. Perciò si vieta il materiale con cui questi oggetti vengono prodotti.
L’iter è iniziato a dicembre 2015. La Commissione europea aveva adottato un piano d’azione per l’economia circolare. In cui individuava la plastica come una priorità chiave.
Nel 2017 viene fissato “l’obiettivo riciclabilità” degli imballaggi entro il 2030.
E nel gennaio 2018 è stata lanciata la strategia per ridurre l’inquinamento da plastica monouso. Che l’anno dopo ha portato alla direttiva in vigore oggi.
Perché i rappresentanti di tutti gli Stati membri d’Europa hanno detto “no” anche alle bioplastiche e alle plastiche biodegradabili?
La “bioplastica” ha sicuramente un impatto ambientale inferiore rispetto alla plastica tradizionale.
Ma, a meno che non si tratti di un materiale sinceramente naturale, anche quando si degrada non è esente da effetti negativi. Come l’eutrofizzazione e l’acidificazione dei terreni.
Comunque sia, quando i nostri rifiuti finiscono nei mari…prima di riuscire a degradarsi esplicano un notevole impatto negativo sui pesci e sugli uccelli marini.
“La scienza ci dice che qualsiasi sostanza, materiale, prodotto rilasciati in natura crea un potenziale rischio ecologico.”
Ce lo ricorda Novamont! (Azienda chimica italiana, attiva nel settore delle bioplastiche.)
“Anche versare in mare dell’olio di oliva da una scatoletta di tonno è un potenziale danno per l’ecosistema marino”.
Bioplastica in Malesia
Per contrastare il fenomeno della finta “plastica biodegradabile” o bioplastica…il governo della Malesia ha messo a punto un metodo speciale.
Per riconoscere l’autenticità bisogna usare il fiuto!
Attraverso un apposito addestramento, agli agenti del ministero è stato insegnato come distinguere le bioplastiche vere da quelle false, utilizzando il senso dell’olfatto e del tatto.
I sacchetti biodegradabili (quelli davvero BIO) presentano delle caratteristiche sensoriali peculiari: una superficie “setosa” e un odore dolciastro.
Anche in Malesia, dunque, la biodegradabilità non garantisce il fatto che le bioplastiche siano “amiche” dell’ambiente.
Lì la produzione delle bioplastiche ha origine dagli scarti dell’industria dell’olio di palma. Comportando l’abbattimento delle foreste tropicali.
Queste, sono l’habitat di molte specie, compreso l’orango. Oltre a fungere da “polmone verde” per il pianeta.
Così, il Ministero dei Territori Federali della Malesia ha rivolto le indagini innanzitutto ai sacchetti di plastica distribuiti all’interno dei supermercati.
Sebbene la prima bioplastica, denominata poli-β-idrossibutirrato (PHB), sia stata inventata nel 1962 dal ricercatore francese Maurice Lemoigne, l’importanza di tale scoperta non è stata riconosciuta per lungo tempo.
Viene da chiedersi perché è stata tenuta in un cassetto per quasi novant’anni? Avrebbe potuto evitare tanti dei problemi che oggi viviamo. Senza la necessità di rinunciare agli agi che le plastiche ci hanno donato.
Nel bene e nel male.
E verrebbe da aggiungere: perché ancora oggi, certe soluzioni stentano a decollare?
Plastica biodegradabile e compostabile: sarebbe il primo passo?
Prima di arrivare alla soluzione “plastiche biodegradabili” abbiamo continuato a produrre plastica da idrocarburi. A partire dall’estrazione del petrolio…dando luogo a diversi squilibri ambientali.
Le materie plastiche, costituite principalmente da carbonio e idrogeno, non sono biodegradabili.
Una volta terminato il loro ciclo, “utile” per noi, costituiscono un grave pericolo per le specie viventi.
Ingenti quantità di plastica vengono ritrovate nel sistema digerente di parecchie specie animali. Pesci, crostacei, tartarughe…cetacei…che le ingeriscono. Possono andare incontro al decesso per soffocamento!
Anche i rischi per la salute umana non sono da poco. Per esempio quelli associati al consumo di pesce e crostacei che abbiano ingerito tali sostanze.
A ciò si aggiunge il fatto che le materie plastiche durante il loro lento degrado rilasciano nell’ambiente le sostanze di cui sono costituite.
Particolarmente tossiche nel caso in cui siano stati utilizzati additivi durante la loro produzione. (Accade nella maggior parte dei casi.)
Nel 2050 ci sarà più plastica che pesce! Nel 2018 gli scienziati l’hanno trovata persino nella Fossa delle Marianne, la più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo.
In corrispondenza del Pacific trash vortex, la grande chiazza d’immondizia nel Pacifico, ci sono più rifiuti che prede! Tanto che la dieta delle tartarughe marine può comprendere fino al 74% di plastica.
È per questo che bisogna aver cura del “fine-vita” dei prodotti. Quello per cui ormai dovrebbero essere progettati: il riciclo e la raccolta differenziata.
Plastica, uomini, arte e scienza
La plastica biodegradabile non è il male. Non è il male neanche la plastica tradizionale.
Da quando è stata introdotta, ci ha semplificato la vita, in alcuni casi salvata se pensiamo alle sue applicazioni sanitarie.
Siamo noi che a volte perseveriamo nell’errore. Altre volte fatichiamo ad “organizzarci”.
Ogni anno finiscono nel mare 8milioni di tonnellate di rifiuti plastici: boe, sacchetti, bottiglie.
In tutto il mondo.
Reti da pesca, cassette di polistirolo, tappi, monouso e centinaia di altri prodotti che danno vita al marine litter. Fenomeno di inquinamento soprattutto da plastica.
Gli oceanografi stimano che il 70% si depositi sui fondali. Mentre il 30% rimane in superficie dove le correnti formano grandi isole.
La più famosa è quella dell’Oceano Pacifico, segnalata già all’inizio degli anni ’70. È grande quanto la penisola iberica.
Ma ce ne sono altre. Al largo delle coste del Cile e Peru, tra l’America del Sud e l’Africa meridionale.
Nell’Oceano Indiano, nel Mare Artico…e una si sta formando tra l’Elba e la Corsica.
Per cercare di sollevare le coscienze su questo problema, che tra pandemia e problemi quotidiani sembra oggi essere passato in secondo piano, arrivano diversi messaggi di denuncia.
Attraverso l’arte e la fotografia, per esempio, per raccontare quello che stiamo facendo ai nostri mari.
In Italia, il Cnr-Ismar (Istituto di scienze marine) ha organizzato un evento online a marzo in cui ha raccontato e messo a confronto le opere di due artiste.
La fotografa inglese Mandy Barker. Che ha esposto a Venezia nell’ambito della mostra NET.
E l’artista ligure Maby Navone, scomparsa nel 2015 e pioniera dell’utilizzo della plastica recuperata da spiaggia e mare.
L’obiettivo, ha ricordato il Cnr, è:
“tentare un dialogo tra arte e scienza per capire se e come il lavoro artistico possa avere un impatto sulla coscienza ambientale.”
Oltre la definizione di plastica biodegradabile: cosa fare
L’evento del Cnr non era legato solo alla plastica (o alla plastica biodegradabile).
Ma soprattutto non è iniziato e finito a marzo.
Si tratta di un progetto di ricerca intitolato “marGnet”, condotto per sviluppare soluzioni:
- identificare plastiche sul fondale (mapping/modeling);
- recuperarle (recovering);
- riciclarle in carburante marino (recycling).
Per tutelare la salute dei mari, dei laghi e la nostra, sono nati in questi anni vari progetti.
Uno di questi si chiama LifeGate PlasticLess.
Un progetto di LifeGate, che intende contribuire alla diminuzione dell’inquinamento delle nostre acque.
Attraverso la raccolta dei rifiuti plastici nelle acque dei porti, marine e nei circoli nautici.
Per promuovere un modello di economia e di consumo davvero circolare con lo scopo di ridurre, riutilizzare e riciclare i rifiuti.
Soprattutto i più dannosi per l’ambiente come le plastiche e le microplastiche.
Oggi, esistono diversi imprenditori che hanno voluto fare della sostenibilità ambientale il loro business.
Progettando materiali completamente naturali, senza rinunciare alla resistenza, alla durata ed alla duttilità delle materie plastiche sintetiche. Semplicemente ripescando negli archivi dei brevetti l’invenzione del biochimico francese Maurice Lemoigne.
Non siamo gli unici a chiederci se la plastica biodegradabile e compostabile è un’alternativa realmente ecologica rispetto a quella prodotta a base di petrolio.
Se è in grado di rispettare un ecosistema delicato come quello marino.
Per rispondere, la società italiana Novamont, da anni leader nel settore delle bioplastiche, ha realizzato una serie di studi scientifici.
In parte nei propri laboratori e in parte commissionati ad enti di ricerca. I risultati sono stati presentati e appaiono rassicuranti.
Tre ricerche commissionate confermano la biodegrabilità delle bioplastiche in Mater-Bi e la non tossicità per l’ecosistema marino.
“La cura per ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime o il mare.”
Lo scriveva Karen Blixen in tempi non sospetti, siamo tutti pronti a fare del nostro meglio!?