Plastica nella catena alimentare: come ci finisce e i danni che provoca
Tempo fa, uno studio dell’Università di Newcastle (Australia) ha messo assieme i risultati di 52 ricerche preesistenti sulle stime di ingestione della plastica nel mondo. Insomma, sappiamo già della plastica nella catena alimentare!
Non è una novità, purtroppo.
Ce lo raccontava, per esempio, il giornalista Riccardo Barlaam in un articolo del 2019.
Secondo lo studio di cui sopra, infatti, ogni essere umano ingerisce in media 1.769 particelle di microplastica a settimana.
Semplicemente bevendo acqua.
Sarebbero cinque grammi ogni sette giorni.
(Il peso di una carta di credito.)
Negli ultimi anni, dunque, le microplastiche sono state trovate ovunque.
Aria di montagna, oceano Artico, pioggia e neve.
Addirittura, nel corpo umano: nella placenta, nelle feci, nei tessuti organici.
Mancava all’appello solo il sangue.
Così, ecco uno studio scientifico olandese, pubblicato dalla rivista Envronment international.
Ebbene, la plastica è nella catena alimentare…ed è anche nel nostro sangue!
Ora, i ricercatori sottolineano che servono altre ricerche. Per giungere a una piena comprensione del fenomeno.
Per capire se e quali sarebbero i rischi concreti per la salute umana.
Con i dati a disposizione è impossibile dare risposte.
Di sicuro il tema va indagato, anche in considerazione del fatto che precedenti studi hanno rilevato concentrazioni di microplastiche molto più elevate nelle feci dei bambini.
Le particelle verrebbero rilasciate anche dai biberon: a contatto con l’acqua calda necessaria per preparare il latte in polvere!
Come entra la plastica nella catena alimentare?
Plastica nella catena alimentare!? Più lo ripetiamo, più sembra assurdo.
Avevamo già accennato qualcosina nell’articolo sulle microplastiche in mare.
In pratica, la plastica arriva sulle nostre tavole “senza che noi ce ne accorgiamo”. Attraverso i fiumi, i mari e gli oceani.
Un circuito vizioso e dannoso.
(Praticamente un’economia circolare in forma negativa. Completamente a nostro discapito!)
Dopo l’acqua del rubinetto e le bevande in bottiglia, sarebbero i crostacei la seconda fonte di ingestione di microplastiche.
Vediamo cos’altro ci rivela la ricerca dell’università australiana.
Gamberi, aragoste, scampi, astici e mazzancolle?
“Vengono mangiati tutti, compreso il loro apparato digerente, dopo una vita trascorsa in acque marine inquinate”.
Riflette Kieran Cox, autore della ricerca.
Secondo lui le conclusioni sono sottostimate e i livelli di ingestione di microplastiche sarebbero più elevati.
Beh, le microparticelle derivano da tante fonti:
- fibre tessili artificiali (come nylon e poliestere)
- microsfere (di alcuni dentifrici e cosmetici)
- e innanzitutto…dai grandi pezzi di plastica!
Quelli che disperdiamo nell’ambiente e gradualmente si riducono.
Nel mare, in agricoltura e nell’alimentazione animale…
Le microplastiche, oltre che nell’acqua, sono state ritrovate: nella birra, nel sale, nello zucchero, nell’alcool e nel miele.
Ed è stato rilevato che, negli Stati Uniti le persone sono più a rischio che in Europa.
(Lì, al supermercato, quando acquisti qualcosa regalano non una ma due buste di plastica. E i sacchetti come le cannucce di plastica sono tra i principali imputati.)
Uno studio del 2018 sostiene che negli Stati Uniti, in ragione del maggiore inquinamento da plastica, sono stati riscontrati il doppio delle microplastiche nell’acqua di rubinetto rispetto a Europa, India o in Indonesia.
90.000 particelle all’anno.
Che vanno ad aggiungersi alle bevande ingerite dagli americani con le bottiglie in plastica.
(Da 74mila a 121mila particelle di microplastica per le bevande in bottiglia.)
Che effetto ha la plastica sulla salute umana?
Bene, abbiamo capito che la plastica nella catena alimentare c’è.
Ma non ci sono ancora abbastanza ricerche.
E tra gli scienziati non c’è concordanza sui danni che le microplastiche possono causare nell’organismo umano nel lungo termine.
Secondo uno studio del King’s College di Londra (2017) l’effetto cumulativo dell’ingestione delle microplastiche nel tempo può essere dannoso.
I diversi tipi di plastica hanno proprietà tossiche differenti. Alcuni tipi possono contenere elementi tossici come la clorina.
Altri possono lasciare tracce di piombo nell’ambiente.
Nel tempo queste tossine possono avere impatto sul sistema immunitario.
I ricercatori olandesi (che hanno pubblicato su Envronment international) hanno esaminato i campioni di sangue donati da 22 volontari che godono di buona salute.
Sono andati alla ricerca di particelle di plastica di misura uguale o inferiore ai 700 nanometri.
(Nello studio si sottolinea che le microplastiche avrebbero un diametro inferiore ai 5 millimetri. Le nanoplastiche inferiore ai 100 nanometri. Ma la distinzione non è stata stabilita all’unanimità.)
Per la prima volta, nel sangue sono stati identificati e misurati quattro materiali:
- polietilene tereftalato, meglio conosciuto come Pet;
- polietilene, indicato con la sigla Pe;
- polimeri dello stirene, come il polistirolo e il polistirolo espanso;
- in misura minore, il polimetilmetacrilato.
La concentrazione rilevata si è attestata su una media di 1,6 microgrammi per millilitro.
Lo studio -pionieristico- dimostra che (almeno in parte) microplastiche e nanoplastiche sono biodisponibili.
Ciò significa non solo che sono presenti nell’organismo, ma anche che vengono assorbite ed entrano nelle sue funzioni fisiologiche.
Il tasso di eliminazione attraverso i reni, le vie biliari o la deposizione negli organi è più lento rispetto alla velocità con cui il sangue le assorbe.
Plastica nella catena alimentare: cosa fare?
I ricercatori, armati di coraggio, indagano sui potenziali effetti negativi della plastica nella catena alimentare.
È ovvio che è fondamentale comprendere l’impatto sulla salute umana!
Nel frattempo, Marco Lambertini (direttore internazionale del Wwf) propone qualcosa di essenziale.
Per niente banale!
Visto che si tratta di un problema globale, può essere risolto solo affrontando le cause alla radice.
“Se non vogliamo plastica nel corpo, dobbiamo fermare i milioni di tonnellate di plastica che continuano a diffondersi nella natura.”
La necessità è quella di un’azione urgente a livello di: governi, imprese e consumatori.
Secondo Lambertini, infatti, l’ingestione è solo -un aspetto- di una molto più ampia crisi.
L’inquinamento da plastica è una grave minaccia alla fauna. Non solo attraverso l’ingestione di microplastica ma per la distruzione degli habitat.
Cosa fare?
Evitare l’uso della plastica! Ridurre il packaging…e soprattutto favorire il loro riciclo.
La transizione da economia lineare a circolare prende piede. Eppure il passaggio alla pratica quotidiana non è così scontato.
Pensate che il Consiglio nazionale delle ricerche (nel 2019) stimava che ogni chilometro quadrato di mare in Italia contenesse fino a 10 chilogrammi di plastica.
Nel Tirreno settentrionale, attorno a Sardegna, Sicilia e Puglia: abbiamo almeno due chili di plastica in superficie.
Il 79% finirebbe nelle discariche e in tutti gli ambienti naturali. Il 12% incenerito e solo il 9% nella raccolta differenziata.
Inoltre, da tempo sappiamo che entro i prossimi decenni, la quantità di plastica riversata negli oceani sarà tale da superare la massa complessiva dei pesci che li abitano.
A spiegarlo era stato, già nel 2016, uno studio della fondazione Ellen MacArthur. Che aveva indicato il 2050 come data del possibile “sorpasso”.
Per fortuna c’è chi sta lavorando a possibili soluzioni…e i risultati cominciano ad essere evidenti!
Per esempio, avete mai sentito parlare di LifeGate Plasticless?
Date un’occhiata!
Plastica nella catena alimentare: la “plastisfera” è servita!
Se la plastica nella catena alimentare ci ha sorpresi, non sarà semplice accettare il resto.
Esattamente: c’è di più!
La presenza così invasiva della plastica, nei mari di tutto il mondo, sta facendo emergere un ecosistema specifico.
Lo hanno battezzato “plastisfera”.
(Per analogia con “biosfera”.)
Potrebbe provocare nuove epidemie… A spiegarlo è un’analisi del quotidiano economico francese Les Echos.
Il termine plastisfera indica:
“l’insieme dei micro o macro-organismi, batteri, virus, funghi, microalghe, invertebrati, crostacei o altri tipi di esseri viventi che negli oceani colonizzano i rifiuti di plastica”.
Formando sulla loro superficie quello che gli specialisti chiamano “biofilm”.
Il biofilm è stato individuato per la prima volta nel 2013. Suscitando la preoccupazione degli esperti.
Tre anni dopo, due biologi olandesi, hanno scoperto che nella miriade di batteri presenti in questi ecosistemi basati sulla plastica, erano presenti anche quelli appartenenti alla famiglia dei vibrioni.
Che comprende anche il Vibrio cholerae, responsabile del colera.
Un altro studio del 2020, pubblicato dalla rivista scientifica Plos One, ha confermato la presenza negli estuari dei fiumi.
Risale infine al 2019 un’altra scoperta allarmante, che ha rafforzato lo studio del 2016.
Alcuni batteri ritrovati su rifiuti di plastica nella regione antartica sono risultati resistenti agli antibiotici. Allo stesso modo dei più coriacei presenti sulla terraferma!
(Siamo sicuri di voler continuare a dibattere sul fatto che il coronavirus sia stato creato artificialmente o meno!?)
Dovremmo semplicemente comprendere che le ragioni per agire urgentemente non mancano.
Il “laboratorio” in cui possiamo decidere se: prevenire, curare o danneggiare ulteriormente esiste eccome.
È a cielo aperto.
È il nostro pianeta!